«La Valascia è la cattedrale della Leventina»

Ticino, Dicembre 2020

L’architetto Mario Botta spiega la sua visione per la nuova pista di hockey dell’Ambrì-Piotta. Un progetto destinato a marcare il paesaggio e la vita stessa della Leventina, in cui l’archistar ticinese esprime tutta la sua visione dell’architettura. E ricorda brevemente anche i maestri che l’hanno ispirato e il suo concetto di architettura.

Da tifoso dell’Ambrì, dev’essere una soddisfazione incredibile poter lasciare il segno nella storia di questa gloriosa società sportiva.
Nell’affrontare questo progetto di ricostruzione, mi sono reso conto che la Valascia può oggi essere interpretata come la «cattedrale» della Leventina, nel senso che raccoglie un’identità che viene da lontano. Questa identità non è ancora tutta espressa al meglio ma, come quando sentivo rumoreggiare la curva Sud, vi è qualcosa di antropologico, dove si sentono le origini dell’uomo, il bisogno di incontro collettivo, il bisogno di rivendicare una propria identità. Quindi, oggettivamente, non c’è solo il lato sportivo, ma è un qualcosa che tocca il rapporto dell’uomo con la sua terra. Per questo motivo la ricostruzione doveva innanzitutto avvenire nella località dove sorgeva la vecchia Valascia, perché è qui che c’è questo spirito. Bisogna perciò far sì che non resti una struttura isolata, con il pericolo che viva solo durante i fine settimana. Meritava quindi uno sforzo perché diventasse uno spazio polivalente; questo perlomeno nelle intenzioni, poi sarà la vita a determinarne l’uso e l’utilizzo. Si trattava di un’occasione per cercare di aggiungere una struttura capace di far vivere la valle.

Sarà riconoscibile come un progetto Botta, nel senso che porterà qualche segno distintivo del Suo stile architettonico?
Non è importante che sia riconoscibile come un mio progetto, anche se poi il linguaggio architettonico è sempre quello. L’importante è che abbia un significato di benessere e che sia chiaro nella lettura. Ecco, non dovrebbe essere quello che ha rischiato di essere, cioè un capannone anonimo dove si gioca a hockey, come la maggior parte degli stadi svizzeri che assomigliano a dei supermercati. Il mio sforzo è stato di cercare di dare una lettura più semplice possibile del manufatto pur mettendone in risalto le singole parti. Quindi, di articolare gli spazi interni per far sì che anche chi passa sull’autostrada si accorga che qui si svolge un evento e non si tratta né di un baraccone né di un mercato o di un semplice magazzino. Perché se si aggiunge un ennesimo capannone da periferia non si fa un gran servizio alla cultura del paesaggio.

I lavori procedono secondo i piani? La nuova Valascia sarà pronta per il prossimo campionato 2021/22?
Questo dipenderà dal rispetto del nostro programma, che però è legato alle condizioni meteorologiche stagionali. In pratica dipenderà da quanta neve cadrà. Nel primo anno siamo andati bene, perché abbiamo potuto lavorare a lungo durante i mesi invernali e poi ricominciare già a febbraio/marzo. Adesso dipende tutto dal meteo e da questo maledetto Covid, perché ormai non possiamo più affidarci solo alla pianificazione. Questo è anche segno della nostra fragilità come civiltà. Fino a pochi anni fa sembrava che la tecnologia potesse fare tutto, ora abbiamo visto che non è così.

In Leventina porta la Sua firma anche la nuova stazione di servizio di Stalvedro, al portale Sud del Gottardo. Che tipo di progetto ha sviluppato là?
È una struttura certamente più modesta della nuova Valascia. Sostanzialmente si tratta di una stazione di servizio per il rifornimento di carburante con un piccolo shop e area di ristoro. Insomma è la tipica area di sosta autostradale con servizi annessi.

A livello architettonico, volevo dare un segnale a chi transita sull’autostrada che si distinguesse dalle consuete pensiline dei distributori di carburante, quindi ho pensato a un tetto a zig-zag che si ispira alla forma di una saetta. Magari l’utente si incuriosisce e si ferma per far benzina e bere un caffè. D’altra parte, queste strutture hanno una connotazione transitoria, anche per il fatto che la concessione statale prevede una gestione di 25 anni.

Improbabile che ci sarà qualcuno che demolirà un Botta, neppure tra 25 anni…
Perché no! Sarebbe anche normale. Gli edifici sono come gli uomini, devono nascere ma devono anche morire a un certo punto. Io non sono per la conservazione a oltranza. Se è giusto che una chiesa duri 200 anni, è altrettanto giusto che un distributore di benzina duri solo qualche anno.

In pratica ci sarà un Botta lungo le due direttrici dell’autostrada, sia quando si entra in Ticino che quando si esce dal Ticino. Un bel segnale per il nostro cantone…
È così, ma non era né pensato né cercato. Si tratta di un puro caso della vita. Non tutto si può programmare e la vita ogni tanto ti porta ad avere queste coincidenze, che non erano né immaginabili né tantomeno programmabili.

Ha altri progetti in cantiere in Ticino?
In Ticino ho un cantiere che si protrae da 10 o 12 anni, ossia la 4a fase del Centro sportivo di Tenero che prevede il completamento della grande palestra e degli spazi destinati all’amministrazione del complesso. I lavori di ampliamento sono proceduti a tappe, perché da buoni Svizzeri non si fa il passo più lungo della gamba. Ora però c’è una domanda molto forte e quindi è nata l’esigenza di questa nuova palestra e di una nuova mensa per 400 pasti. I lavori saranno ultimati probabilmente nel 2023.

E in Svizzera interna e nel resto del mondo, ha in ballo qualche grande progetto?
In Svizzera sto lavorando alle nuove terme di Baden, che saranno inaugurate il prossimo anno. Si tratta di un progetto molto vasto che concerne tutta un’area storica della città sulla sponda della Limatt, proprio dove sorgevano le antiche terme romane 2000 anni fa. Ora stiamo completando la passeggiata lungo il fiume. A livello internazionale, c’è una grande chiesa a Seul in Corea del Sud, ormai quasi ultimata. Sempre in Asia ho il progetto di un altro museo alla Tsinghua University di Pechino, che purtroppo è rallentato dalla pandemia di Covid.

Terme, musei, teatri, banche, casinò, biblioteche, edifici religiosi, ora perfino una pista di ghiaccio… Lei ha realizzato di tutto. Ha ancora un sogno nel cassetto, qualcosa che non ha ancora avuto occasione di disegnare?
Io prediligo le strutture che hanno una partecipazione diretta e costante, quindi abitazioni, scuole, musei, luoghi di culto. Luoghi cioè che soddisfano il bisogno di durata, che abbiano una costante e non siano in balia del momento. Pensandoci bene, mi manca ancora un ospedale, che però è una macchina molto complessa. È un tema molto delicato, ma anche affascinante, perché non solo c’è la permanenza e la degenza ciclica, ma contiene anche l’idea del dolore, del confronto con la malattia. Ma dovrei campare 500 anni per poter realizzare tutto quello che mi piacerebbe!

Per concludere, ci può ricordare brevemente i Suoi maestri, i grandi architetti che l’hanno ispirata?
Se fossi nato nel ‘600, il mio maestro sarebbe stato sicuramente il Borromini. Dato, però, che sono nato nella cultura post Bauhaus a cavallo delle due guerre, i miei punti di riferimento sono i grandi architetti della generazione precedente alla mia, quindi Le Corbusier, Louis Kahn e Carlo Scarpa. Li considero maestri per quello che hanno rappresentato per l’architettura e perché ho avuto anche il privilegio di conoscerli e lavorare con loro.

E tra i giovani architetti chi Le piace?
C’è molto fermento, ma in architettura bisogna fare dei distinguo per quanto riguarda l’età. Pensi che Louis Kahn ha cominciato a lavorare a 50 anni… nel nostro lavoro si arriva relativamente tardi. Il mio caso è eccezionale perché ho avuto la fortuna di fare l’apprendistato da Tita Carloni a Lugano dai 15 ai 18 anni. Bisogna considerare che normalmente un architetto esce dalla formazione tra i 25 e i 30 anni, poi ci vuole un’altra decina d’anni per cominciare a «capire». E questo è il motivo per cui, in generale, gli architetti campano a lungo (ride)… Le prospettive di vedere una propria realizzazione finita sono sempre molto lontane. Comunque, tra i cosiddetti «giovani» mi piace più di tutti il giapponese Tadao Ando che, pur non essendo un giovanissimo, è giovane nella forma espressiva. Poi, invece, c’è tutta una generazione a cavallo tra la mia e quella successiva che è stata un po’ inghiottita dal vortice della globalizzazione e anche l’architettura ne ha molto sofferto. Vi è infatti un appiattimento continuo dei modelli e dei linguaggi. Basti osservare come il vetro e l’acciaio siano ormai diventati una routine. Io, invece, credo che l’architettura sia altro, che non sia la forma, ma i valori dello spazio a determinarne la qualità. Su questo punto siamo un po’ orfani, perché dopo i grandi maestri non vi sono più stati punti di riferimento. ■

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